domenica 4 novembre 2012

SPITZBERGEN 2011



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„ Il tempo era splendido, il cielo completamente azzurro .
Le bellissime cime della Spitbergen , ricoperte di neve, sfolgoravano al sole „ Umberto Nobile ,generale comandante del dirigibile Italia, maggio 1926 Baia del Re

Dopo un lungo volo , durato oltre sei ore, mi trovo con un gruppo di altri medici a Longyearbyen, all’ interno dell’aeroporto più a Nord del pianeta sull’isola di Spitzbergen, nell’arcipelago delle isole Svalbard,  a oltre mille chilometri dalle coste settentrionali della Norvegia . E’ il primo maggio 2011, e, nonostante l’avanzata primavera,  mi pare di aver fatto ritorno nel pieno dell’inverno : cielo nuvoloso, infatti, e nevischio con temperature invernali mi accolgono sul suolo delle Svalbard .
 Attorno catene montuose innevate che non superano i mille metri e che sovrastano la baia dove si trova il villaggio di Longyearbyen.
Sono le 23.30, ma è ancora giorno. In questa stagione, infatti, nell’Artico  il sole non tramonta mai e mai, quindi, sembra giungere il momento buono per andare  a letto .
Tore Dahlberg sta  aspettando il nostro gruppo e, al nostro arrivo, ci accoglie nella sala d’attesa del piccolo aeroporto . Apparteniamo tutti alla Commissione Medica della CISA-IKAR , e siamo qui per la consueta riunione primaverile. E’ un medico norvegese che ha lavorato per oltre dieci anni nel piccolo ospedale di Longyearbyen e che conosce molto bene il territorio di queste  isole.
 L’incontro avrebbe dovuto avvenire nello stesso periodo dello scorso anno, ma, a causa dell’eruzione del vulcano islandese, è stata rimandata di un anno .
Sull’isola le strade non esistono, salvo  che per qualche chilometro  attorno a Longyearbyen giusto per soddisfare  le necessità delle miniere di carbone .
Ci sistemiamo nel piccolo albergo che Tore  ha prenotato .
Alle 2 p.m.,  dopo la lunga giornata di viaggio, riesco finalmente a coricarmi . La luce entra nella stanza attraverso la finestra e mi riesce  difficile prendere sonno . Tutto mi sembra alquanto strano e inusuale.
 Fuori a tratti piove e a tratti nevica .
Mi sveglio alle 7 un po’ stordito per aver, in effetti,  dormito poco , e, guardando fuori dalla finestra, mi fa quasi impressione vedere il paesaggio dell’Artico tutto innevato.
E’ in programma una gita di sci-alpinismo  a 7 Gruve, cui partecipiamo in sette: Eveline, Greg, Gunther, iztok, Christian, Iris ed io, località situata a pochi chilometri da Longyearbyen .Un autobus ci accompagna fino al punto di partenza della gita nei pressi di una miniera di carbone .
 Nevica. Attorno le vette delle montagne sono avvolte da una fitta nebbia. Incontriamo, strada facendo , alcuni allevatori di cani da slitta e vediamo i cani legati alle loro cucce all’interno di appositi recinti . Appesi a pali di legno penzolano i corpi di alcune foche , che diventeranno cibo per i cani da slitta . Siamo un piccolo gruppo di scialpinisti ( Eveline, Greg, Gunther, Iztok, Christian, Iris,ed io ). Ci accompagna una giovane guida norvegese di nome Victor.
Messi gli sci ai piedi, saliamo lungo  pendii nevosi per niente ripidi. La visibilità è scarsa .Continua a  nevicare fitto, ma, di tanto in tanto, riusciamo a scorgere il fondo della vallata e le catene di montagne che ci stanno di fronte. Incontriamo le tracce nella neve di una renna, e di una volpe polare, animali abbastanza comuni da queste parti . Più in alto noto anche  le peste di una pernice artica ., che chissà forse da poco si è alzata in volo, spaventata dalla nostra presenza.
Siamo a circa 800 m. sul livello del mare . Victor ha un paio di sci da fondo escursionistico e fa fatica  a muoversi nella neve umida e pesante. Ha con sé una carabina di calibro7 millimetri per difendersi da eventuali attacchi   di orso polare .

La fauna delle Svalbard: una grande risorsa naturale


Nell’arcipelago si trova  una popolazione di circa tremila orsi polari.  La maggior parte dei qualivive  nelle isole a Est. I plantigradi possono comunque essere avvistati un po’ ovunque , ma soprattutto lungo la costa, dove è più facile per loro procurarsi il cibo . L’orso polare di solito non  si avvicina a gruppi numerosi di persone , mentre è possibile che si avvicini a persone sole o poco numerose. In genere  gli animali pericolosi per l’uomo sono quelli che hanno perduto la madre in quanto, non avendo avuto modo di imparare a cacciare, sono affamati e, quindi, aggressivi  . Alle Svalbard per legge è obbligatorio muoversi  armati di fucile o di pistola, per proteggersi dalle possibili aggressioni da parte degli orsi polari .Può essere utile anche l’uso di una pistola lancia-razzi, in caso ci si trovi in difficoltà e si debba richiedere aiuto.
Victor ci parla degli animali che vivono sulle isole, delle renne per esempio . Gli abitanti del luogo possono cacciare .  Sono animali di taglia più piccola rispetto a quelle che vengono allevate in Lapponia.  Vivono allo stato brado e fanno parte di una popolazione circa ventimila esemplari. Ogni anno vengono fatti i censimenti sul territori per stabilire i piani di abbattimento, provvedimento crudele agli occhi degli ambientalisti, ma necessario per l’equilibrio dell’ambiente . La caccia è permessa , ma é molto ben regolamentata. In determinati periodi dell’anno gli abitanti del luogo possono catturare le volpi polari con le trappole e abbattere le pernici artiche coni il fucile .
 Nel 1929 furono introdotti nell’arcipelago 17 esemplari di bue muschiato provenienti dalla Groenlandia . Oggi, non ne resta più alcun esemplare. L’ultimo bue muschiato è, infatti, scomparso negli anni ’80 . La scomparsa di questo ruminante  pare dovuta a una incompatibilità territoriale  con le renne, unita al clima troppo umido e relativamente più mite rispetto alle altre regioni polari, come per esempio la Groenlandia .
 Raggiungiamo dopo un paio di ore la cima di una montagna sulla quale si trova un cairn,ovvero un piccolo cumulo di pietre, che in passato  un esploratore realizzò  per lasciaretestimonianza del suo passaggio un efficace sistema utilizzato dalle vecchie  spedizioni per lasciare messaggi, specie lungo le coste . I cairn , detti anche ometti o matte, erano, in passato molto utilizzati specialmente lungo le coste. Continuando la salita raggiungiamo un colle  da cui possiamo vedere dove si trova il fiordo di Longyearbyen .
Victor ogni tanto segna i waypoint sul suo GPS , per non perdersi in caso di nebbia fitta . Ci fermiamo per una breve sosta utile a mangiare un panino e, poi, una discesa ripida ci fa scendere di  circa 500 metri. . Victor fa fatica con i suoi sci leggeri, mentre Iztok va a cercare, come al solito, i pendii più ripidi per scendere . Incontro ancora le tracce lasciate sulla superficie nevosa da una pernice artica, che si è allontanata forse disturbata dal fruscio degli sci o da chissà che altro .
 Nevica ancora e la nebbia non permette di guardarci intorno.
 Scendiamo ancora, perdendo quota con gli sci. La neve è piuttosto fradicia, ma , nonostante ciò, si riesce a sciare bene. In fondo troviamo dei pendii morenici con sassi instabili che minacciano di cadere. Giunti sul piano, ci dirigiamo  verso il fiordo .
Alcuni gabbiani volteggiano sopra di noi nel cielo  incuriositi . Stupisce  vedere questi uccelli marini in montagna . Scatto molte foto, ma l’obiettivo è coperto da fiocchi di neve che  compromettono la qualità delle immagini . Incontriamo alcune capanne di legno  hytten,,  specie di baite in legno costruite per ospitare  i cacciatori fin  dall’antichità. In una di queste piccole costruzioni troviamo appese alla parete le corna  di una renna, come è usanza.
Dobbiamo percorrere il lungo piano, prima di raggiungere di nuovo il bus . Incontro cinque renne  intente a mangiare la poca erba secca che spunta dalla neve .
  Abbiamo appuntamento alle 4,30 p.m. al bus che ci riporta  al villaggio .
Le isole Svalbard possono essere attraversate con gli sci d’inverno o a piedi d’estate in circa trenta giorni . Si possono utilizzare le motoslitte o le pulke, oppure usare le slitte trainate dai cani . L’uso dell’elicottero è consentito solo per missioni di soccorso e non per trasportare alpinisti , escursionisti o turisti in genere .

L’isola che c’é

L’isola di Spitzbergen rappresenta un’area famosa per le ricerche polari a partire dal 1607, anno in cui vi giunsero i primissimi esploratori  Barents e Hudson . Si dice che ogni anno , specie d’estate , un migliaio di ricercatori viva  a Spitzbergen per effettuare studi scientifici di varia natura. Una curiosità è rappresentata dal “ Global Seed Vault “ , una specie di arca surgelata  nel permafrost ai piedi del Monte Paltafjell ,  a un chilometro all’aeroporto di Longyearbyen. Al suo interno sono conservati  a 18 gradi sotto zero  650mila campioni di semi di quattromila specie di piante provenienti da duecentoventisette paesi del mondo pnienti da tutto il mondo, dove ,alla temperatura costante di 18 °C sottozero, sono conservati seicentocinquantamila campioni di semi di quattromila specie di piante provenienti da 227 paesi del mondo. Lo scopo è quello  di salvaguardare la biodiversità  delle piante , il deposito è stato inaugurato il 26 febbraio 2008  .
La sera del giorno successivo, dopo cena si sale su Sugar Peak, che, pur non essendo una montagna  molto alta che sovrasta il villaggio. La serata è magnifica, con il sole che non tramonta mai. Fa abbastanza freddo . Salgo a piedi in compagnia di John, Mario e Harris lungo la spalla della montagna che ha una pendenza di circa 45 gradi. La vetta della montagna è quasi piatta  e un  cairn  indica il punto più alto . In prossimità della cima  incontriamo una donna norvegese che risiede a Longyearbyen e passeggia per godersi il sole di mezzanotte .
Vediamo molte pernici artiche che vivono in questi luoghi. I maschi sono in amore: una tempesta ormonale li spinge all’accoppiamento e rende le loro piume lucide e attraenti. Tengono lo coda a ventaglio e hanno gli occhi sormontati dalle  caruncole che sono sopracciglia, rese ipetrofiche dall’approssimarsi delle nozze. Rincorrono le femmine, che si lasciano corteggiare, compiendo di tanto in tanto dei balzi sul terreno innevato, che lasciano tracce della loro presenza.  La pernice artica è l’unico  uccello che vive in queste isole anche d’inverno in condizioni davvero estreme . Proseguiamo lungo una cresta che ci porta sulla vetta di un’altra montagna.
Nel frattempo Iztok , Gunther e  Christian ci raggiungono in un amen con gli sci .
 Scatto alcune foto, ma faccio fatica  a tenere nelle mani la macchina fotografica  a causa del freddo intenso . Anche John si diletta  a fotografare con la sua preziosa Leyca, un oggetto inusuale in un luogo così selvaggio. E’ incredibile potersi muovere nel cuore della notte come se ci si trovasse in pieno giorno. Avverto una  sensazione che sulle mie montagne non riesco a provare. Sono tutt’uno con l’infinito , parte integrante della natura. Verso le 11.30 p.m.  rientriamo in quella specie di albergo dove alloggiamo.
 Hermann,Giacomo, Eveline e Greg ancora con gli sci ai piedi hanno raggiunto il fondo valle  per vederli rientrare intorno alle due a.m. .

Di uccelli marini, di renne e di neve

Il 5 maggio, dopo le riunioni della Commissione Medica della CISA-IKAR,, è in programma un’altra gita sci-alpinistica. Compagni di gita Iztok, Christian e Eveline . Non essendo interessati a intraprendere un lungo tragitto pianeggiante per raggiungere la montagna, decidiamo di farci accompagnare per qualche chilometro da un taxi. La giornata è fredda e chiara. Lasciata l’auto che ci ha trasportato fino a dove lo consentano le possibilità meccaniche, mettiamo gli sci ai piedi e incominciamo a  salire . Appena imboccata una valletta che gira verso destra, veniamo attirati dalle grida di stormi di uccelli marini che si rifugiano sulle falesie rocciose che ci sovrastano. E’ uno spettacolo incredibile . Gli uccelli volteggiano in continuazione nel cielo azzurro e, poi, si vanno a posare sulle rocce. Più saliamo  più ci avviciniamo arrivando a averli  a pochi metri. Impossibile non fermarsi a fotografarli e per ammirare le evoluzioni che compiono nel cielo con i loro  voli rapidi,  lanciando  richiami acuti.  Di tanto in tanto compare anche qualche fringuello alpino che si va a posare sulle rocce . Sulla neve scorgo le tracce di un orso polare che è da poco passato da queste parti,forse in cerca di cibo o chissà. Non è raro,infatti, imbattersi in un orso in queste regioni dell’Artico, talvolta anche lontano dalla costa dove per lui è più facile trovare cibo.
 Raggiungiamo un colle che porta a un pianoro, da cui  si possono vedere il mare   e alcune catene montuose.  Siamo ai piedi di un piccolo ghiacciaio, uno tra i tanti cosiddetti icecap, in una zona di morene, montagnole di sassi e ghiaia create nei secoli dal lento passaggio del ghiaccio. Fa molto freddo e tira un  vento forte.  Saliamo ancora fino a un colle da cui parte la cresta finale della montagna dove siamo diretti . Christian decide di fermarsi, mentre io e Iztok proseguiamo nonostante la bufera . Eveline segue un po’ più distaccata . Nel frattempo il cielo si è coperto di nubi scure. La neve ai nostri piedi è molto dura e, a tratti, incontriamo lastre di ghiaccio . Dopo la cresta sbuchiamo su di un lungo pianoro che ci porta in breve alla cima , dove si trova una stazione meteorologica con alcune antenne. Fa un freddo terribile e anche Iztok, forte alpinista sloveno himalayano, è  intirizzito  . Breve sosta sulla cima e qualche  rapida foto, mentre Eveline ci raggiunge, allungando il passo . Ho con me il fucile che dobbiamo avere al seguito, secondo la legge delle Svalbard, potrebbe tornare utile per difendersi da un eventuale, improvviso attacco da parte degli orsi polari.
 Hermann, Greg e  Giacomo stanno salendo dietro di noi. Iniziamo la discesa tra le raffiche di vento gelido, il blizzard che fa calare la temperatura in modo significativo, determinando il cosiddetto wind chill factor . Più si procede verso il basso,  più la temperatura si alza.  La neve è ottima, farinosa, e ci permette di godere la discesa.  Si scia lungo il versante orientale della montagna . Iztok preferisce  affrontare i pendii più ripidi, come è sua abitudine. Adora, infatti, le difficoltà e no esita  a cercarsele. Il rischio, sia pure calcolato, lo attira.
Ci fermiamo in un punto riparato per mangiare finalmente un panino, poi, facciamo di nuovo ritorno al villaggio. Incontro tre renne che pascolano su un prato spazzato dal vento e quindi senza neve. La fredda primavera artica sta per incominciare, ma per questi ruminanti trovare un po’ di cibo è ancora difficile.
 Alle 4.30 p.m. siamo in albergo, la nostra base .
 All’orizzonte il profilo di una montagna sulla cui cima, nel 1996, si è schiantato un Tupolev russo con a bordo oltre cento passeggeri, per la maggior parte minatori, tutti morti nell’impatto contro la montagna.
Il giorno dopo nevica fitto, ed è questo il ricordo più vivido che porto con me delle Svalbard .
L’ora di riprendere la via di casa è scoccata.


Un tragico incidente


Tre mesi dopo il nostro viaggio,il 5 agosto 2011, una spedizione scientifica britannica è stata attaccata  di notte da un orso bianco sull’isola di Spitzbergen a circa 40 chilometri da Longyaerbyen. Uno dei membri della spedizione di 17 anni è stato ucciso , mentre quattro altri individui sono stati feriti dal plantigrado. L’orso , un maschio 250 Kg.  è stato abbattuto con un colpo di carabina. Il governatore delle Svalbard ha  aperto un’inchiesta. I quattro feriti sono stati trasportati all’ospedale di Tromso. Ma di loro in Italia non si sono più avute notizie.





Inquadramento geografico

         Le Isole Svalbard sono un gruppo di isole polari che si trovano tra i 74° e gli 81° di Lat. Nord e tra i 10 ° ed i 35 ° di Long. Est. Spitzbergen è l’isola più grande dell’arcipelago,  e l’unica che ha  centri abitati sul suo territorio . L’intera superficie delle isole è pari a quella del territorio dell’Italia Settentrionale .Il nome Svalbard   significa “ coste fredde “ , mentre la parola Spitzbergen vuol dire “ costa aguzza “ . Tra il Capo Sud ( Sorkap ) e l’estremo Nord dell’isola c’è una distanza di 637 chilometri. Oltre all’isola di Spitzbergen vi sono la Terra del Nord-Est ( Nordaustlandet ) , l’isola di Edgeoya e l’isola Barentsoya nonché moltissime altre piccole isole . Le vette più alte sono quelle del Newtontoppen ( 1717 metri ) e del Perriertoppen  (1712 metri) (. La media delle temperature è, d’inverno, -15 gradi ( febbraio-marzo ), mentre d’estate è di +2 gradi ( luglio )


Un po’ di storia

Si dice che i primi abitanti delle Svalbard siano stati i Pomori a partire dal 1500 , famosi navigatori di origine siberiana. Taluni ipotizzano che i primissimi siano stati un gruppo di navigatori islandesi nel 1094 . Nell’anno 1596 l’olandese Willem Barents, alla ricerca del mitico passaggio a Nord-Ovest, ovvero di  una rotta più corta per raggiungere le Indie, approda sull’isola Bjornaja . A partire da quei tempi le  “acque pullulanti di cetacei come la carpe di un laghetto “ ( Hudson ) hanno attirato centinaia di balenieri, molti dei quali provenienti dai Paesi Bassi, per lo più galeotti. La maggior parte moriva più comunemente di scorbuto,  per naufragio o per assideramento. Colonie di balenieri si sono installate alle Svalbard e si calcola che ogni estate venissero uccise circa duemila balene . A partire dal 1720 , per oltre due secoli, ebbe inizio l’epoca dei trapper russi che si dedicarono alla caccia degli orsi polari, delle foche, dei trichechi, delle belughe , delle balene franche, delle renne  e delle volpi polari , raccogliendo pure le uova ed il piumino  della grossa anatra chiamata  edredone. Si dice che alcuni trapper uccidessero in un inverno dai 7000 agli 8000 trichechi . Alla fine del 1700 giunsero nelle isole i cacciatori norvegesi di foche. Nell’ Ottocento ebbero inizio le prime spedizioni scientifiche , e cominciò lo sfruttamento  dei giacimenti di carbone . Lonyearbyen è stata costruita nel 1906 dall’americano John Munroe Longyear, imprenditore minerario della “ Arctic Coal Company”, lungo il torrente che scende dal Nordenskjoldfjellet. L’abitato originale è stato distrutto nel corso della Seconda Guerra Mondiale dall’esercito tedesco.
Le spedizioni polari furono tante e, tra queste, le più popolari furono, forse,  quella con il dirigibile Norge, nel 1926,  di Umberto Nobile e di Roald Amundsen  e la tragica spedizione del dirigibile Italia nel 1928 . Le due imprese ebbero come base il villaggio di Ny Alesund situato nella  suggestiva Baia del Re  nell’isola di Spitzbergen , che guarda le cime delle Tre Corone .  Il 12 maggio 1926 venne effettuata la  storica trasvolata del Polo Nord con il dirigibile NI-Norge . Ricorre quest’anno 2011  il centocinquantesimo anniversario, ovvero il Giubileo ,  delle prime esplorazioni polari che hanno visto quali protagonisti Roald Amundsen e Fridtjof Nansen .  Il 14 agosto 1925  è stato siglato il trattato delle Svalbard, in seguito al quale le isole sono state riconosciute ufficialmente territorio norvegese e gran parte del territorio è divenuto protetto .




“ A blue world
Full of frozen hopes
A turning point
Before delicate rose beams
Creep gently across the sky

God once said
Let there light
It must have been
February
In Svalbard “



domenica 30 settembre 2012

INCONTRI


Ero un ragazzino di circa otto anni ed ero solito accompagnare mio padre , o meglio era lui che mi portava con sé sulle montagne  Bergamasche e non solo. Quel giorno, era l’estate del 1958 , ci eravamo diretti  nella valle di Ornica. Mio padre frequentava spesso quelle zone della Val Brembana e , quindi,  le conosceva molto bene. Eravamo partiti presto con l’intento di raggiungere la cima del Valletto, una cima rocciosa che si trova sulla testata della Valsalmurano.
Dapprima saliti nel bosco, avevamo raggiunto le propaggini della montagna meta della nostra escursione. Fuori dal bosco si saliva su pendii abbastanza ripidi fin sotto i contrafforti del Valletto. Ero solo un bambino, ma mi piaceva già da allora camminare in montagna. Prima di raggiungere la rocciosa cima del Valletto si dovevano percorrere pendii erbosi e  tratti di ghiaione, esposti a Sud. E fu nel risalire lungo un pascolo ripido che la vidi : si crogiolava al sole, aveva la testa triangolare e le pupille simili a fessure. Il suo colore era del tutto simile a quello della roccia, cosicché solo un osservatore attento avrebbe potuto smascherare la sua capacità mimetica. E io lo ero. Rimasi immobile, non avrei saputo dire se paralizzato dalla paura o ipnotizzato dal fascino del rettile. Era la prima volta che vedevo una vipera. Ne avevo, però,  sentito parlare molto come di un mostro feroce, di un predatore spietato in grado di uccidere. Quasi senza più respiro  avvertii insieme al battito accelerato del mio cuore nitidamente un sibilo: la vipera mi stava minacciando ? Ero quasi sicuro che fosse così, solo anni e anni dopo avrei scoperto che le vipere sono timide, temono l’uomo e sibilano per difendersi e non per attaccare.
Io e la vipera stavamo di fronte e tutto intorno a me era fermo, cristallizzato: sentii il passo di mio padre avvicinarsi e, finalmente, riuscii a distogliere lo sguardo dal rettile. Mi guardai intorno. Il mondo aveva ripreso a girare ed era scesa una nebbia leggera.
“Era  una vipera, vero ?” chiese mio padre.  Deglutii annuendo. Lui mi prese per mano e, senza dire nulla, ricominciò a salire, tenendosi accanto.
Più avanti colsi una stella alpina, poi, un’altra e un’altra, erano bellissime. Era la prima volta che vedevo questo fiore.

sabato 29 settembre 2012

TRA LE MONTAGNE DEGLI DEI

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Creta è la più grande delle isole greche. E’ di origine vulcanica e fa da spartiacque tra Europa e Africa. Ha subito varie dominazioni, in particolare veneziana e turca, che hanno imposto sanguinose lotte, prima del raggiungimento dell’indipendenza.
Si dice che vi sia nato Zeus, indiscusso sovrano dell’Olimpo e che vi abbia fatto naufragio Menelao di ritorno dalla guerra di Troia.  Si narra anche che vi sia stato costruito il labirinto in cui era imprigionato il Minotauro e che proprio qui si bruciò le ali Icaro, nel suo folle volo.

L’isola di Creta è il paradiso per chi ama la montagna.
Ci siamo andati in dieci, tutti disposti ad affrontare disagi e difficoltà pur di godere di quella natura che sapevamo incontaminata.
Per quanto mi riguarda, sono partito dall’Italia un po’ prevenuto per via di una sfortunata esperienza vissuta a Creta vent’anni prima in occasione del mio viaggio di nozze. Era il maggio 1991, ma avrebbe potuto essere tranquillamente novembre, viste le condizioni atmosferiche: freddo e vento e pioggia e nebbia ci avevano ostacolato e innervosito non poco.
Ma ad accoglierci il venerdì di Pasqua in cui il nostro gruppo è giunto ad Hania è stato un clima mite, senza pioggia.  Le Lefka Ori, o Montagne Bianche, alte poco più di duemila metri, a Sud della città hanno subito attirato la mia attenzione: sono cime spoglie e aspre e la più elevata, il monte Pachnes, raggiunge i 2453 metri. Arrampicarsi è reso possibile da una strada che sale fino a Omalos, un piccolo villaggio che pare dimenticato da Dio e dagli uomini. 
Le catene montuose di Creta sono solcate da gole che le attraversano per poi giungere al mare. Tra queste le più famose sono  Imbros, Aradena di Irini e Samaria, dove vive l’Agrimi-Ibex, meglio nota come kri-kri, una particolare specie di capra selvatica e leggendaria in quanto quasi impossibile da avvistare.
Era aprile e la primavera ci è venuta incontro con i suoi profumi e colori: qui e là mimose e biancospini e, ancora, robinie, rosmarini e alberi da frutto.
La prima sera ci ha ospitato Antonio, un amico originario di San Martino di Castrozza,
che da alcuni anni abita ad Hania per sfuggire al freddo delle Dolomiti. Il suo alberghetto in centro ha un nome che è una promessa: Pan e Vin, ovvero qui si mangia genuino.
Ci attendevano  cinque giorni di trekking: saremmo partiti da Imnros e avremmo concluso il nostro itinerario a Paleochora. Abbiamo visitato  l’isolata regione di Sfakia, fino a Loutro, il sito archeologico dell’antica Phoenix e Aghia Roumeli in prossimità delle Gole di Samaria.  Il territorio di Sfakia é quasi una regione  a parte rispetto al resto dell’isola  ed è noto per la  bellicosità dei suoi abitanti, che si ipotizza dovuta alle difficoltà della vita.
La tappa più impegnativa ci ha portato da Aghia Roumeli fino a Soughia attraverso un tratto di costa  selvaggio e isolato, passando nei pressi di un’antica fortezza turca e delle rovine di Pikilassos, per finire vicino allo sbocco delle gole di Irini. Durante il tragitto vento forte a tratti e temporali si sono succeduti, ma al tramonto un arcobaleno bellissimo ci ha risarcito del mal tempo.  Lo scenario, a mio avviso il più interessante della costa meridionale di Creta, mi ha ricordato Selvaggio Blu  o l’attraversata del Sopramonte in Sardegna o, comunque, un ambiente di tipo carsico. Avevamo portato uno zaino leggero, senza tende e sacchi a pelo,   così abbiamo deciso di sostare  per la notte negli ospitali alberghetti che spuntano sulla costa, lungo cui camminavamo, seguendo sentieri talvolta anche solo abbozzati. Sotto di noi  il mare Libico in cui a tratti riuscivamo a scorgere le pinne dei delfini e in cui vive anche la maestosa testuggine marina, purtroppo impossibile da individuare dalla nostra distanza.
A volte ci spostavamo nella foresta tra cipressi, lecci, carrubi, ginepri, pini marittimi, olivi, olivastri,  fichi d’India. Il  tronco contorto di alcuni di essi (degli olivi specialmente) ci raccontava che erano  alberi vecchi di secoli. Fringuelli, merli, codirossi, tordine  con il loro canto   ci rendevano più energici perché più allegri.  Cisti, anemoni, papaveri erano ovunque si posasse lo sguardo. In questi luoghi  abitati da pastori abbiamo  incontrato  capre con al collo un campanaccio e pecore ammassate  quasi a proteggersi l’una con l’altra, nonché  ovili e  casolari, talvolta sulla riva del mare o addirittura sopra gli scogli.  Laghetti e sorgenti sono un po’ ovunque: consentono l’abbeveraggio degli animali al pascolo, che sono la grande ricchezza  di questa popolazione di pastori. A loro si deve la deliziosa feta e la saporita ricotta caprina, vere salvezze per l’economia locale.
Abbiamo incontrato pareti di roccia dalle bizzarre colorazioni, come il bianco, il grigio e  il rosso: un’attrazione  irresistibile per qualsiasi scalatore con l’animo avventuroso perché abitate oltre che da colombi selvatici da aquile, avvoltoi, altri rapaci minori e dalle pernici chukar. Questi uccelli si alzano in volo all’improvviso con un frullo d’ali che fa trasalire, poi si buttano lungo i canaloni delle montagne lanciando un grido che pare  un segnale d’allarme. Altre volte  emettono un canto che riecheggia tra le rocce. 
A rendere lo scenario ancora più incantevole c’erano fiori che con audacia erano riusciti a crescere su quel terreno tanto arido. In alcune zone dell’isola  la terra ha un intenso colore rosso scuro  come pure i sassi che occhieggiano regalando altre macchie di colore e altre suggestioni.
Di tanto in tanto, camminando a pochi passi dal mare tra gli ulivi vecchi di secoli, riuscivamo a scorgere le vette più alte dell’isola coperte di neve e il contrasto tra la distesa d’acqua e l’impervia roccia ci regalava una stupita sensazione di immensità. Raramente la costa   riesce a fondere il paesaggio marino e quello montano in un’unica simbiosi fatta di vette, pendii, coste rocciose, faraglioni, scogli, spiagge, tutti sferzati da un vento a volte così forte da lasciare le piante piegate come segno del suo passaggio. 
Ovunque il  giallo delle ginestre:  in mezzo al verde della macchia, tra le rocce,  sui pendii scoscesi. Le margherite aggiungevano altro giallo, ma spezzato dal bianco, così da offrire  uno spettacolo di ingenua bellezza.
Abbiamo incontrato rovine appartenenti all’antica storia greca o ad altre civiltà e chiesette bianche a picco sul mare. Le più antiche si devono ai Veneziani che a lungo furono i signori del luogo. All’interno delle chiesette  immagini sacre, candelabri e reliquie capaci di evocare un senso di sacralità e di rendere l’atmosfera solenne. 

Ma non si vive di sola arte né di sole bellezze naturali: la cucina cretese, frugale ma gustosissima si è rivelata all’altezza del nostro appetito  e dei nostri esigenti palati italiani.  

sabato 4 agosto 2012

GLI E' TOCCATO MORIRE


Franz Klammer di Hohentauern aveva 20 anni quando venne reclutato per quella che doveva passare alla Storia come la “Guerra Bianca” e mandato a combattere insieme con altri giovani nella zona di Cima Presena sul massiccio dell’Adamello. Lo assegnarono al 2° Rayon della 90^ Divisione Stelvio-Tonale, insediato a quasi 3000 metri di quota.
Da sempre aveva amato la montagna e vederla invasa e contaminata dalla presenza di cannoni, fucili, trincee gli procurava una sensazione di doloroso smarrimento. Non aveva mai digerito di doversi misurare in un’esperienza assurda come lo era la guerra, ma non aveva avuto scelta.
Una guerra difficile, di posizione, con attacchi e offensive che portavano a perdere e riconquistare postazioni talvolta dislocate in luoghi inaccessibili. Franz naturalmente prima di allora non aveva mai visto tanti morti e non riusciva ad abituarsi.
Era stato assegnato alla cima Presena, a 3069 metri di altezza, un luogo molto conteso da entrambi gli schieramenti. Certe giornate passavano lente, certe altre trascorrevano in un amen. Era estate e i combattimenti erano tanti. Franz, nei pochi attimi di pace concessi dall’alba, ritrovava la montagna del suo recente passato, scenario di momenti belli e lontanissimi dall’inferno del suo presente.
La vita di Franz si svolgeva tra una baracca che lo ospitava durante le ore di riposo e la trincea che d’inverno la neve avrebbe coperto completamente rendendola una barriera gelida, ma, forse, più sicura.
Prima di allora aveva usato il fucile, uno “Stutzen” tipo M95 solo per cacciare i camosci sulle montagne della Stiria, e non certo per ammazzare la gente.
Ogni tanto il tuono dei cannoni rompeva d’improvviso il silenzio della montagna, annunciando l’imminente offensiva. A volte ci si doveva arrampicare sulle cime dei monti per strappare al nemico posizioni imprendibili, facendo ricorso alle bombe a mano, alla baionetta, ai pugnali, ai tirapugni o anche al lanciafiamme. Quando le armi tacevano Franz poteva riascoltare il rumore dei torrenti e il canto degli uccelli, osservare i camosci o percepire il solo soffio del vento che sembrava ripulire la montagna dall’orrore della guerra, portandolo lontano. Molti i momenti trascorsi con i compagni a parlare, o a giocare a carte o a cantare, o a fumare la pipa. Molte le notti passate immobile a fare la vedetta al freddo (le escursioni termiche della montagna!) , pensando a mille cose, con la paura di essere improvvisamente sorpreso dal nemico e aspettando un’ alba che non arrivava mai. A volte era bello prendere il sole sulle rocce, ma c’era sempre il rischio di qualche cecchino nascosto nelle postazioni nemiche. Ogni tanto toglieva dalla tasca una fotografia della morosa, chissà se lei faceva altrettanto con la foto di loro due che un tempo teneva nella borsetta. Ogni tanto arrivava la posta da casa, che Franz aspettava con ansia e alla quale rispondeva subito, raccontando le poche cose belle di cui si poteva godere su quelle montagne. Della guerra, invece, non parlava mai, un po’ per non spaventare i suoi, un po’ per lo spettro della censura che implacabile valutava le missive prima di inoltrarle.
Nella notte tra il 24 ed il 25 maggio 1918 si scatena un’importante e inattesa offensiva italiana. Per ore e ore un terribile bombardamento tormenta la montagna , che nello stesso tempo viene avvolta da un’impietosa bufera. Neve e vento rendono difficile il tiro delle artiglierie e l’avanzata delle truppe italiane, che, comunque, riescono a prendere di sorpresa il presidio austro ungarico in vetta allo Zigolon . Franz si trovava nella sua postazione molto più in basso sotto le granate di cui facevano parte i maledetti shrapnel, tipi di bombe che si aprivano prima di toccare il suolo, vomitando piombo. Ovunque si sentivano il suono nervoso delle mitragliatrici e le urla dei feriti, ovunque si vedevano i corpi immobili dei soldati morti.
Era l’agosto del 1918 e lui si trovava esattamente al passo dei Segni, nei pressi del caposaldo austro ungarico più importante del fronte Sud-Ovest. Si trattava di dare il cambio al presidio che occupava la posizione e che era ormai esausto, dopo diversi giorni di prima linea. Il gruppo di militari austro ungarici, trasportati in camion lungo la Val di Genova fino alla cascina Pedruch, aveva raggiunto, dopo due giorni di marcia, il passo dei Segni, salendo dalla Val Zigolon, sotto la Punta Ronchino e la Cima di Zigolon. Il passo dei Segni si trova a 2875 metri, tra la cima Presena, in quel momento occupata dai soldati italiani, e la cima della Busazza. Dopo alcuni giorni tranquilli, un pesante bombardamento , da parte delle truppe italiane pone fine a quella tregua apparente, ma lenitiva per l’anima. All’improvviso anche il fuoco delle mitragliatrici comincia a battere le postazioni austro ungariche. Nella notte alcuni alpini scesi dalla cima Presena uccidono alcune vedette austro ungariche. In seguito alla decisione di ripiegare nella Val Zigolon, i soldati del presidio abbandonano la posizione e scendono più in basso. A uno a uno i militari austro ungarici escono allo scoperto e anche Franz segue gli altri commilitoni. Per tutta la montagna eccheggia il fuoco della fucileria e delle mitragliatrici. Franz viene colpito da una bomba a mano che gli cade vicino, lanciata da un alpino. Si accascia, abbandona il fucile. La vista gli si annebbia, fiotti di sangue gli escono dal petto, un grande freddo pervade il suo corpo. La neve fresca sotto di lui si colora di rosso. Aveva visto morire molti giovani amici, e ora  toccava a lui. Tante volte alla vigilia di un’azione aveva pensato a quell’addio definitivo con angosciosa aspettativa. Adesso l’addio lo doveva dare alla montagna, al futuro che non avrebbe avuto, all’uomo che non sarebbe diventato.
Un torpore si diffuse nel suo corpo straziato e pietosamente gli portò un sonno che neppure le grida disperate dei feriti avrebbe potuto interrompere.
Era l’agosto del 1918, era uno degli ultimi mesi di guerra, quando recuperare i corpi dei caduti era diventato impossibile. Le spoglie di Franz sono restate lassù. Ci ha pensato la neve a coprirle di bianco due mesi dopo.


Il soldato tirolese è un bambino nella fede, un uomo al posto assegnatogli, un camerata in trincea, un tiratore infallibile in linea, un leone nel combattimento ravvicinato, un santo nella morte; è insieme pieno di semplicità primitiva e originalità. Così scrisse il cappellano militare Matthias Ortner per raccontare di tutti i giovani caduti di tutte le guerre e, quindi, anche di Franz.





* Il racconto è liberamente ispirato a un episodio della “Guerra Bianca”, realmente accaduto nel mese di agosto del 1918 e vuole essere un omaggio a tutti i giovani soldati di entrambi gli schieramenti caduti sulle montagne del massiccio dell’Adamello. Ragazzi il cui ricordo, purtroppo, si è fatto via via più pallido con il trascorrere del tempo.